sabato 17 maggio 2008

CAMPUS VIRIDIS


10 MARZO 2008.
CAMPOVERARDO.

Una frazione, quattro strade un crocevia, la chiesa più cappella che parrocchiale, molto bella e per le tre pale d’altare una piccola cattedrale, come tutti i paesi della zona cresciuti in fretta periferia di città, da ultimo una piazza che non è il centro: questo oggi è Campoverardo. All’incirca sono 1100 gli abitanti, molti i volti nuovi venuti da fuori, per lo più ben integrati nell’arco di breve tempo.
Nel tracciare questa piccola storia del paese, neppure segnato sulle carte turistiche, vedremo come alle nostre spalle, al di là di quanto rimasto che non è poco, c’è invece una grande storia! Conosciamola insieme (personaggi, arte e cultura), abbiamo un posto privilegiato nel suo angolo migliore.

LE ORIGINI --- Le radici di Campoverardo vanno profonde nei secoli. Alla caduta dell’Impero romano nel 330 d.C. seguirono i secoli bui. Calarono i barbari scesi dal nord, senza leggi come belve scatenate seminarono distruzione e morte ovunque passassero, nella nostra terra aizzati da Berardo il loro capo. I veneti a tanta rovina trovarono rifugio nelle isole della laguna e là possibilità di vita vivendo di caccia e di pesca. Questi i primi palpiti di Venezia, città d’acqua, e nell’intero città museale.
Intorno al mille d.C. arrivarono da queste parti i frati di S. Ilario per ordine e a spese della Repubblica Veneta, allo scopo di salvaguardia delle acque e del territorio lambito dalla laguna su questa sponda con bonifica del terreno. Era alle Gambarare il più vicino insediamento, stesso ordine di frati, medesimo trattamento, non diverso il fine. Questo ordine di religiosi da secoli non esiste più, la loro Casa Madre a Venezia era situata dove oggi si trova la chiesa della Madonna della Salute, e del grande convento di S. Ilario è rimasto il chiostro gotico, superlativo davvero fra il Canal Grande e il ponte che porta alla stessa chiesa, con vista in tutto il bacino di S. Marco.
La Repubblica era severissima in fatto di acque, per chi le manometteva o le inquinava c’era la pena di morte per impiccagione nella piazzetta a San Marco. Il palco veniva eretto fra le due colonne, quella di san Teodoro protettore di Venezia prima di san Marco, l’altra con il leone di san Marco sulla cima, più mostro che leone, in agguato con lo sguardo severo e minaccioso verso il mare. Spettava al doge dalla loggia di palazzo Ducale dare il via per l’esecuzione alzando la mano destra, mentre la più piccola delle cinque campane del campanile, la renghiera o malefica, accompagnava il rito con il suo lamento. Per questo un veneziano “doc” non passa mai o meglio non passava mai a piedi fra le due colonne.
Sulla terra qui rassodata e resa fertile, a mano a mano i frati costruirono una chiesa, il piccolo convento, un cimitero, proprio dove via santo Quirico finisce in aperta campagna. E fino agli anni sessanta del secolo scorso inglobata nell’ultima vecchia casa poi demolita (da Broin), esisteva ancora la cella mortuaria dei frati, ad uso secchiaio ricordo, con la grande pietra di marmo nel fondo, e la piccola finestra rotonda più sopra, a contorno in cotto, rischiarava la tenebra.
Nel contempo quei frati in loco, non dovevano essere pochi dalle dimensioni del cimitero oltre mezzo campo, chiamarono un gruppo di pastori vicentini. Dai monti Berici svernavano qui da settembre a marzo coi loro greggi, di nome facevano Compagno, e stabili ebbero la terra, una quarantina di persone il primo nucleo.
Già la Repubblica era grande e potente davvero, contava ormai più di sei secoli di Storia, datava la sua nascita nel 430 d.C. secondo il più antico e primo documento conservato nell’Archivio di Stato di Venezia. Non è scritto oggi è nata Venezia, ma è un contratto di compravendita di biade tra privati. Tale archivio, il più grande del mondo, con sede nell’ex convento della chiesa dei Frari, conserva i documenti della Storia della Repubblica (leggi, fatti e misfatti, guerre, i turchi i più acerrimi nemici, vittorie, e anche storielle allegre di vicende vissute) raccolti in cartelle per ottantasette chilometri fino a tutto l’ottocento. L’archivio del Vaticano, il secondo nel mondo, non arriva ai cinquanta chilometri. (Non è uno sgorbio dialettale la parola Frari, ma la prima e l’ultima sillaba di FRAti minoRI, quelli di sant’Antonio.)
Crebbe con gli anni il villaggio, i Compagno si divisero in due rami, l’uno i Pastore e l’altro i Pastoreti, i loro sopranomi, ma sarei cauto nell’affermare come discendenti gli attuali Compagno. In fondo quelli erano gente povera, analfabeti, civilmente zero, braccia da lavoro o soldati per le guerre, e con altri nuovi arrivati dividevano miseria e gli stessi sopranomi. La storia scritta dall’antichità annovera invece nobili e grandi famiglie, grossi personaggi, condottieri, ricchezze e civiltà, arte ed alta cultura, tutto il Bello di cui oggi noi godiamo.
Campus Viridis, Campo Verardo, cioè campo verde, nucleo abitativo, il posto dove vivere insieme al sicuro dai briganti, il paese nucleo delle prime comunità; Premaore, prato maggiore, il luogo dove portare gli armenti al pascolo; brogilus Prozolo, il campo lavorativo recinto da confini fisici, donde il “brolo” nel nostro dialetto.
Campoverardo: secondo altri studiosi il nome deriverebbe da Berardo, il condottiero, e cioè il “campo di Berardo” che qui seminò strage. Secondo me, logicamente, vale invece la prima definizione, non quella di ricordare un barbaro. “Campus” d’incontro e vita, alla maniera dei “Campi” le piazze di Venezia.

1405. Venezia dà una lezione al ducato dei Carraresi e la pagano salata i padroni di Padova. I Carraresi infatti nei periodi di grandi piogge convogliavano, senza freno, le acque dai Colli Euganei e della città, attraverso il canale Piovego, a Stra nella Brenta. Il grande fiume allora e come tutt’ora era senza argini nel tratto della nostra Riviera, con allagamenti distesi e gravi seminando distruzione e morte lungo il suo percorso, e inondazione con acqua alta a Venezia, a volte pericolosa legata alle fasi lunari. Era un modo da parte dei Carraresi per mettere seriamente in crisi la Città di Venezia.
D'altronde la Repubblica prese le sue contromisure costruendo un terrapieno fronte laguna, lungo all’incirca un chilometro oggi isola del gas, dirimpetto alle carceri di Santa Maria Maggiore. In questo modo divisa in varie falde s’impediva l’urto all’onda di piena di entrare in Canal Grande da un solo lato, l’antica e naturale foce della Brenta: il lato negativo del fiume. Senza La Brenta, lato positivo, oggi il Canal Grande sarebbe un rio.
Il Consiglio dei Dieci con il Doge chiamò in quell’anno Paolo Savelli, barone romano, per condurre le truppe terrestri veneziane alla conquista di Padova e fu la guerra. I grandi capitani e condottieri veneziani erano “omo de mar”, comandante di Galee.
Si è combattuto molto ad Oriago Termine, il confine tra la Repubblica ed il Ducato, dove sulla statale della Riviera al semaforo di via Sabbioni esiste ancora all’angolo l’antico pilastro di confine, unico segno rimasto. Molti furono i morti da ambo le parti, la disfatta toccò all’esercito dei Carraresi, dopo di che per il Savelli fu una passeggiata fino alle porte di Padova. Arrivatovi circondò la città, l’assediò, mancanza di viveri e denutrizione scoppiò la peste.
Fu così la fine del Ducato dei Carraresi, come pure per il Savelli morto di peste alle porte di Padova. A Venezia nella chiesa dei Frari il barone Savelli ce lo ricorda il primo dei monumenti equestri, innalzati dalla Serenissima ai suoi condottieri nelle varie chiese della città.
Il territorio del Basso Padovano divenne alla fine territorio della Repubblica, il controllo delle acque passò a Venezia, al Magistrato delle acque, per cui non era più necessaria la presenza dei frati di Sant’Ilario nel nostro territorio. Ben presto, non più sovvenzionati, circa quattrocento anni dopo il loro arrivo, si ritirarono a Venezia nella casa madre alla Salute, e per ultimo i pochi rimasti furono annessi ai Benedettini.

Facciamo un passo indietro di secoli, Roma all’inizio dell’impero (30 a.C.) con Ottaviano il primo imperatore. Dopo lunghissime e pericolose guerre, per farla breve, egli giunse alla signoria di tutta quanta la penisola Veneto compreso: l’italica potenza, e romana l’amministrazione.
Una volta sciolto l’esercito Ottaviano distribuì le terre del nord ai suoi soldati, ai veterani la pianura padana, e diede per centurie anche l’agro patavino di cui la nostra terra aveva propaggini (canali che s’intrecciavano ad angolo retto) verso il mare. Il centurione qui di nome faceva Stampa, nome riportato quasi illeggibile in una pietra d’epoca, ritrovata in loco negli anni sessanta dopo la seconda guerra mondiale, quando le arature con grossi trattori divennero profonde
Nel periodo dell’Impero i Romani costruirono sulla gronda lagunare, a meno di mezzo chilometro in linea d’aria dall’insediamento dei frati di sant’Ilario, verso sud e molti secoli prima, quello che comunemente la gente chiamava Castello, donde il nome di “via Castellano” la strada che univa e unisce tutt’ora Camponogara con Fossò. Forse se ne è persa la memoria, ma la Carta Idrografica e Topografica del Bassso Agro Patavino, risalente al X° secolo, ce la rinfresca: Castellum, in genere come nelle mappe antiche.
D’altra parte, nelle mie ricerche, non ho trovato nessun altro documento che lo confermi. Ora sono due le ipotesi. Fosse stato davvero un Castello privato di nobile famiglia, non sarebbe andato perduto, o almeno qualche altro scritto confermerebbe la sua presenza. Invece no, al posto suo oggi esiste una spianata di campo agricolo.

Non è da escludere piuttosto che fosse una di quelle fortezze: castrum, più a vox populi che in chiara mappa arrivato fino a noi, ma la “Lapis vicarius” firmata nel nostro caso “Stampa” lo confermerebbe. Tali fortezze prevenivano le invasioni dei barbari, crebbero da noi a difesa dei confini dell’Impero Romano verso il mare, accadde nel deserto anche per i paesi del nord d’Africa, affacciati sul Mediterraneo.
Così Roma potenza italica si trasformò in potenza mediterranea, e signora di quel mare lo chiamò “Mare Nostrum”, dopo le tre guerre puniche durate più di cent’anni e finite con “Cartago delenda est”, Cartagine è distrutta.
In caso di minaccia ed invasioni su quelle torri si accendevano dei grandi fuochi, visibili anche alla distanza di cinquanta chilometri, più o meno lontane una dall’altra ma sempre a vista d’occhio. Con
la fine dell’Impero poi l’abbandono, il degrado, la rovina portata per secoli da parte degli abitanti per costruire le loro povere case. Pare che anche il primo nucleo della nostra chiesa (1180) sia stato fatto con tale materiale (pietre erratiche), come è stato rilevato con il restauro degli anni ottanta del secolo appena trascorso. E i frati i sant’Ilario per il loro convento non furono da meno.

Fine della parte antica.

La parte moderna inizia con la nomina del primo parroco di Campoverardo, con bolla della Diocesi di Aquileia del XXVI Nov/is 1667, e si conclude con il volume “Il marchese Manfredini si racconta.” Pronto per essere stampato dorme da due anni il libro, e nell’attesa d’esser pubblicato cerca degli sponsor. Giacomo Giantin
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