giovedì 29 novembre 2007

Il marchese Federico Manfredini si racconta

E' il titolo del libro che lo studioso Giacomo Giantin sta per pubblicare, dopo lunghi anni di ricerca e lavoro sui testi del marchese.

E' la sua storia non comune di militare, di educatore, di politico in primis, di mecenate amante e critico d’arte: i suoi scritti venivano letti all'Accademia d'Arte di Venezia.

Si racconta con umiltà il Manfredini, nel suo vero i successi, le debolezze, gli sbagli soprattutto politici smentendo a volte gli storici. Di lui spesso tacciono, come non fosse uno dei nostri. Giacobino veniva chiamato, e tutt’ora la Toscana, in questo vizio storico, male lo ricorda: “Mi faccio lecito di una divagazione in qualità d’Italiano. In realtà lo sono, in modo viscerale fino al midollo delle ossa.” Son parole sue.

E’ l'autobiografia di un personaggio di rara intelligenza, di fine intuito, di gran cultura. Si presenta così il marchese Federico in 151 paginoni scritti in parte a Padova, completati poi a Campoverardo (Ve) qualche anno prima di finire qua i suoi giorni, e dove fu sepolto.

La sua scrittura è difficile da leggere, a volte indecifrabile il testo. Questa sua testimonianza, trovata per caso, sconosciuta fino ad oggi o forse tralasciata per le difficoltà nell’interpretarla, viene da me proposta: il suo pensiero alla maniera mia, al fine di far conoscere un personaggio storico, non solo per l'Italia ma anche per l'Europa. E’ un documento molto valido: la Toscana e l’Austria (il Sacro Romano Impero Germanico fino al 1805, quindi l’Impero d’Austria 1806-1866), e con le sue dimissioni del 9 ottobre 1809, politicamente, per quasi mezzo secolo, gli erano pane di tutti i giorni.

A Campoverardo arrivò tardi, e per vent’anni circa visse qui la sua serena vecchiaia. Fu sua l'idea di promuovere nel piccolo paese, prevalentemente agricolo, le prime attività artigianali: fabbri, calzolai, costruttori di mobili, liutai e non solo, via via sviluppatesi poi sulla scia della tradizione. Campoverardo divenne paese pilota tra quelli della Provincia, né mancarono veri maestri artigiani nella seconda metà dell’ottocento e primi novecento: i Minano, i Sartori, Sparissi e Brusegan pianoforti per citarne qualcuno. Casa e bottega, a conduzione familiare come si dice oggi, erano segni di un benessere diffuso, di nuovi posti di lavoro assicurati, e il paese un polo in terraferma.


Non occorre andar molto indietro negli anni per ritrovare l'ambiente d'allora, vivo nella memoria dei grandi vecchi. Si è poi osato troppo: il cemento, per quanto armato, sarà macerie della nostra cultura, lascito in bianco ai posteri non trovando nel tempo storica radice.

Il marchese è l'ultimo nobile veneto a tenere duro a Campoverardo: nucleo culturale nel filone rinascimentale, artisti e letterati qui sostarono anche a lungo. Nella Barchessa* della villa approntò uno studio di scultura, fra gli altri vi lavorò Rinaldo Rinaldi allievo del Canova. "L'immortale maestro" a sua volta passò pure di qua, rinfrancando così la loro amicizia dai tempi di Salisburgo. S’erano conosciuti molti anni prima quando il Canova, molto giovane, si prestò di far da guida al marchese per la prima volta a Roma, per affari di Stato.

Il Manfredini, a sua volta, fece conoscere il Rinaldi presso tutte le case regnanti d'Europa. Mecenate anche, mentre le grosse famiglie veneziane, scialando allegre, avevano tirato i remi in barca fin dalla caduta della Repubblica. Una chiusura nel privato per orgoglio, la nostra di oggi lo è per paura, e secondo lui in questo modo le società falliscono.

Si chiedevano gli storici dove fosse finito il nostro marchese una volta uscito dal giro, e troppo presto dimenticato per il suo silenzio politico. Eccolo vivo più che mai nel nostro piccolo “Campo Verardo”, il paese che gli riempiva i giorni e gli anni: "tutto mi parlava fortemente allo spirito."