lunedì 10 dicembre 2007

Presentazione del libro. Prof.G. Gullino

Presentazione del libro IL MARCHESE FEDERICO MANFREDINI SI RACCONTA di G. Giantin

Professor Giuseppe Gullino, Facoltà di Storia, Università di Padova.

Vi sono dei momenti nei quali la storia, anziché camminare, si mette a correre; uno degli esempi più famosi di queste improvvise accelerazioni è dato dallo snodo che sottese lo scorcio dell' Ancien régime e l'incalzante età napoleonica: anni convulsi, dove il nuovo e il vecchio mondo si intrecciarono talora sommandosi talvolta annullandosi, sempre comunque sollevando un polverone che impediva una chiara percezione della realtà anche alle persone più accorte esperte preparate. Questa temperie fu attraversata appieno dal marchese Federico Manfredini (Rovigo 1743 - Campoverardo 1829), che per quasi mezzo secolo ricoprì a servizio degli Asburgo incarichi politici e diplomatici di grande responsabilità. La sua era un'antica famiglia che derivava la nobiltà dagli Estensi (1228); Federico, spinto dal padre e dal canonico conte e agronomo Girolamo Silvestri, compì la sua educazione presso il collegio dei nobili di Modena, quindi passò all' Accademia di Firenze. Nella Toscana asburgica ebbe modo di realizzare utili conoscenze che lo portarono a Vienna; era in corso la guerra dei Sette anni e il Manfredini potè impiegarsi nel reggimento Botta (anche grazie all'allestimento di una compagnia, opportunamente pagata e mantenuta dal padre, come s'usava), che seguì in Carniola. La pace, però, era vicina, ma intanto il Manfredini aveva avuto modo di farsi notare da Maria Teresa; è noto infatti che la corte viennese, come sede del Sacro Romano Impero, coltivava una vocazione sovranazionale e sceglieva i suoi uomini indipendentemente dalla nazionalità: a titolo di esempio e per limitarsi ai soli italiani, nel corso del XVIII secolo il maestro di musica fu Antonio Salieri; i poeti cesarei Apostolo Zeno e Metastasio; i generali Eugenio di Savoia (e, prima, Raimondo Montecuccoli), Antonio Botta Adorno e altri ancora; l'arcivescovo di Vienna, poi, era il cardinale Antonio Migazzi.
L'ambiente, dunque, offriva buone disponibilità, ma la fortuna del Manfredini dipese da un evento imprevedibile, ossia dalla morte della seconda moglie del futuro imperatore Giuseppe II, che non aveva figli. Pertanto era ipotizzabile che un giorno la successione al trono sarebbe toccata al fratello minore di Giuseppe, il granduca di Toscana Pietro Leopoldo, e poi a qualcuno dei numerosi figli di quest'ultimo. Manfredini seppe abilmente inserirsi in questa strategia familiare e ottenne la nomina di "aio", ossia di accompagnatore dei piccoli Asburgo; arrivò a Firenze nel giugno 1763 e conservò l'incarico per quindici anni.
Ma senza dimenticare la primitiva vocazione militare, sicché nel 1788 prendeva parte con le truppe imperiali alla conquista di Belgrado nel corso di una delle tante guerre austro¬turche che segnarono gli ultimi due secoli dell'Età moderna. Nel 1790 moriva Giuseppe II e a succedergli sul trono imperiale venne chiamato, come previsto, il fratello granduca di Toscana col nome di Leopoldo II; due anni dopo anche questo scendeva nel sepolcro e la corona imperiale passava al suo primogenito Francesco, accanto al quale il Manfredini aveva vissuto molti anni a Firenze. In ricordo del lungo servizio onorevolmente prestato, gli toccò pertanto l'incarico di governatore della provincia di Salisburgo. A interrompere il fluire di una carriera ormai consolidata, e verosimilmente destinata a ulteriori riconoscimenti, sopraggiunse però l'avventura napoleonica. Già nel 1789 era scoppiata la Rivoluzione francese, dopo la quale nulla più sarebbe stato come prima; sette anni dopo l'armata "giacobina" invadeva l'Italia, al comando del ventiseienne Bonaparte.
Manfredini faceva parte dei consiglieri del granduca di Toscana, Ferdinando; di fronte a tanti sconvolgimenti e al collasso degli Stati italiani, suggerì prudenza. Firenze, pur aiutata da Vienna e da Londra (Livorno era un emporio inglese, in pratica base navale britannica); Firenze dunque non era in grado di opporsi a Parigi, sicché il Manfredini manovrò per una politica di neutralità. Ma gli eventi precipitavano e nel giugno 1797 i francesi entravano in Toscana; Manfredini ebbe un colloquio, con Napoleone, a Bologna, e subì il fascino di quel genio del male: costui stava per occupare Livorno e tuttavia un uomo abile ed esperto come il Nostro credette alle sue false assicurazioni e ritornò a Firenze pieno d'ammirazione per la "giustizia" del Generale in capo e per la sua "penetrantissima mente".
Fu l'inizio della rovina; Livorno cadde in mano dei francesi, tuttavia Manfredini ebbe nuovi incarichi dagli Asburgo, fu in Austria e in Sicilia, ma in un susseguirsi sempre più frustrante di incomprensioni e parziali riabilitazioni, finché nel 1809 chiese e ottenne di ritirarsi a vita privata, a Campoverardo, dove sarebbe vissuto ancora un ventennio, dedicando parte del suo tempo alla stesura delle memorie.
Egli fu sinceramente devoto all'Impero, agli Asburgo e ai valori che essi rappresentavano (non una parola, invece, sulla fine della Serenissima, che pure era la sua patria), fu buon cattolico (inequivocabile la sua condanna del Sinodo di Pistoia voluto da Scipione de' Ricci, nel 1786); insomma fu integralmente uomo dell' Ancien régime, ma non mai un reazionario. Sotto quest' aspetto assomigliò piuttosto a Pietro Leopoldo che a Giuseppe Il, e forse per tale motivo non seppe condannare con la necessaria fermezza politica l'astro napoleonico.
Due parole sul testo. Lo stile è di sapore vagamente alfieriano e tende all'enfasi, il periodare è secco, ma anche involuto e troppo spesso oscuro. Trattandosi di un'autobiografia chiaramente finalizzata ad assolvere il proprio operato, certe oscurità, la regolare mancanza di date precise che possano aiutare la puntualizzazione, o almeno l'individuazione, di personaggi e vicende; tutto questo, dicevo, è imputabile un poco al lasso di tempo trascorso fra gli avvenimenti descritti e il momento della stesura, avvenuta negli ultimi anni della vita del Manfredini, e forse un altro poco al desiderio - umanamente comprensibile - di occultare episodi non troppo edificanti o scelte poco felici.
Giacomo Giantin ha avuto la generosità (e la pazienza, considerato il lungo esercizio di lettura di un grosso manoscritto dalla grafia nient' affatto calligrafica ) di pubblicarne ora le memorie. Questo materiale, per la gran mole di inedite notizie che contiene, ha il pregio di costituire un nuovo contributo alle nostre conoscenze su un'età cruciale e non mancherà di essere utilizzato costruttivamente dagli studiosi, mentre si propone anche come avvincente lettura al più vasto pubblico di tutti coloro che amano la storia.
GIUSEPPE GULLINO.
Settembre 2006.